Cultura
AllAfrica regaliamo un popolo
Lanalisi di Gheddo, missionario controcorrente: "Il vero problema del continente è la mancanza di partiti, di sindacati, di stampa libera, di coscienza civile.
A Genova c?è anche lui. Ma defilato, è qui per qualche giorno di riposo nella casa del Pime di Nervi. Padre Piero Gheddo, missionario e giornalista, 72 anni e una trentina di libri alle spalle, è uno dei pochi a saper mettere le mani nei temi di povertà e globalizzazione. Anche per questo nelle ultime settimane hanno cercato di farlo schierare tra globalisti e antiglobalisti. Lui, pacato, rimanda al libro che ha appena consegnato alla San Paolo e che uscirà a settembre, un?intervista con Roberto Beretta. Titolo: Davide e Golia nel G8 – Dialogo sulla globalizzazione . A Genova, come tutti gli anni, farà il giro dei conventi di clausura, dove si prega per i missionari. Ma qualche giretto pure fra i manifestanti ammette che lo farà, come giornalista, armato di macchina fotografica. Pragmatico: «La protesta mi va bene, quando mai in Italia si è parlato tanto dell?Africa?».
Già, l?Africa. Per Gheddo è forse il continente prediletto, «il più giovane e il più vicino all?Europa», ha scritto, quello cui dedicò il suo primo libro, 45 anni fa. Ma è anche il simbolo dell?insostenibile divario tra ricchi e poveri. «Fino agli anni ?70 l?Africa nera sub-sahariana partecipava al 3% del commercio mondiale; oggi partecipa neppure per l?1%», ricorda. «Di fatto essa viene marginalizzata. La globalizzazione è un treno che corre con tecnologie avanzate, ma taglia fuori queste popolazioni». Se però provate a dire ?è tutta colpa di??, Gheddo allarga le braccia, sbuffa, si agita sulla sedia e inizia a snocciolare dati, analisi e giudizi controcorrente. Giudizi di un realismo impietoso, che non concedono niente ai miti terzomondisti come quello del ?Grande Saccheggio?, ma che non perdonano nulla neppure all?Occidente: ad esempio la fretta di sbarazzarsi delle colonie, o la devastazione delle culture africane. «Il primo problema dell?Africa è che manca il popolo. Un popolo educato, preparato. C?è un po? di élite, ma non ci sono partiti, né sindacati, né stampa libera, né coscienza civile». E via con un giudizio di quelli che in passato hanno fatto arrabbiare anche parecchi suoi colleghi missionari: «È la differenza tra duemila anni di civilizzazione e un continente appena uscito dalla preistoria».
Si può obiettare che è anche e soprattutto un continente depredato, e che negli ultimi decenni questa condizione è peggiorata. «Ma va?!», sbotta. «L?Africa ha ricchezze immense. Certo, hanno anche portato via, ma ce n?è d?avanzo. No, non è questa la causa radicale della povertà. La causa radicale è che gli africani non sono aiutati a crescere come popolo». Obiezione: i dati del commercio mondiale, lo ha detto lei stesso, parlano di un continente marginalizzato, e il gap tra Africa e Primo Mondo si allarga. «Certo negli ultimi trent?anni nel resto del mondo la produzione di ricchezza è aumentata. In Africa si è rimasti alla produzione di trent?anni fa, mentre la popolazione è cresciuta da 200 milioni nel 1960 ai quasi 800 milioni di oggi. Certo, l?agente esterno c?è, ma non è il fattore determinante. Determinante è che i soldi spariscono nei canali della corruzione. Che molti Stati stanziano il 30% della spesa di bilancio per le Forze armate, il 2-3% per l?istruzione, l?1-1,5% per la sanità. Che si sono privilegiate le città, ovvero le élite e i militari, trascurando le campagne. Cioè creando insieme corruzione e sottosviluppo».
I dati di Gheddo non fanno una piega; però sono gli stessi che hanno portato alcuni studiosi a teorizzare la necessità di una ?neocolonizzazione? dell?Africa. «Non voglio nemmeno sentirla pronunciare, questa parola. Il problema invece è che ogni Paese ricco, in Europa o altrove, si deve responsabilizzare. E non è solo questione di soldi, ma di mettere l?Africa al centro dell?interesse della società, delle persone, dei media. E della politica estera. Il continente africano deve diventare un interesse per il nostro popolo. Perché di popoli si tratta, sempre. Governi e organismi sovranazionali vengono poi. Invece oggi c?è meno interesse di 40 anni fa. E non è certo colpa del G-8 o delle multinazionali. Sono contrario al neocolonialismo o a forme di ?tutoring? perché l?aiuto all?Africa non va dato innanzitutto da Stato a Stato, ma da popolo a popolo, da società civile e società civile. Ai manifestanti che protestano contro il G-8 mi verrebbe da dire: protestate prima contro la società italiana, contro i media italiani».
è indubbio però che qualche interesse per l?Africa l?Occidente l?abbia. Interessi perversi. Basti pensare allo scandalo delle guerre scatenate per i diamanti e finanziate con i diamanti. «Sì, tutto vero», riprende Gheddo. «Ma ripeto che non è risolutivo. Anche perché, non illudiamoci: il maggior fornitore di armi leggere ai Paesi africani attualmente in guerra è il Sudafrica. Il Sudafrica di Nelson Mandela. Chiaro che ci sono anche interessi cattivi. Ma mi stupisce che sempre, parlando dell?Africa, si passi immediatamente alla dietrologia: l?Occidente, le multinazionali, la Cia? Invece c?è soprattutto una specificità del problema africano. E nessuno se ne fa carico».
Uno degli ultimi ad averci provato è stato Bill Clinton. Fu il primo viaggio in Africa di un presidente americano in vent?anni. Lanciò lo slogan del ?Rinascimento africano?. Fu un buco nell?acqua. Il Fmi e altre istituzioni sfornano invece ricette difficili da attuare. Non vuole nemmeno sentirle, queste cose: «Anche il debito da condonare: va bene, ma in queste condizioni tra dieci anni saranno daccapo. Bisogna educare gli uomini per produrre sviluppo e progresso». Bisogna anche sapere la storia, incalza. «Nel 1956 il ministro delle Colonie del Belgio, Van Bilsen, aveva preparato un piano per l?indipendenza del Congo da attuare in trent?anni. Poi le cose andarono diversamente, il Congo diventò indipendente nel 1960 e tre mesi dopo già non esisteva più». La morale, per Gheddo, è semplice e impegnativa: non basta qualche mese o qualche anno per cambiare il destino dell?Africa. Occorre una vita, occorrono vite intere. Racconta di padre Camillo Calliari, un trentino che vive in Tanzania, a Kipengere, da trent?anni. E ha messo su un polo di sviluppo formidabile, lodato dal governo. «Ma se gli chiedete quale è stata la difficoltà maggiore, vi dirà che è stato convincere i pastori Wabena che le cose nuove erano meglio delle vecchie». Trent?anni, una vita.
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